Intervista a Shozo Shimamoto – Lorenzo Mango

– La sua attività artistica sembra caratterizzata da due elementi fortissimi, presenti fin dagli anni ’50: la produzione di “opere” e la creazione di eventi. Che rapporto c’è, nel suo lavoro tra opera ed evento?

S: Una volta facevo delle opere che erano l’espressione di un violento lancio di bottiglie. Sia la televisione che i giornali venivano spesso a vedermi, ma non per pubblicare le opere così create, bensì lo scenario della loro produzione. All’inizio mi è capitato anche di arrabbiarmi quando constatavo che l’opera finale non veniva presentata, ma alla lunga ho cominciato a pensare diversamente e sia a proporre qualche idea per cambiare l’ambientazione, che a tenere un certo atteggiamento apposta per quelle occasioni.
Per questo direi che la relazione tra opera ed evento mi è stata insegnata dai giornalisti.

– Il lancio di bottiglie piene di colore è la tecnica che più caratterizza il suo lavoro. Quali sono le motivazioni che la spinsero a questa soluzione?

S: I giovani artisti Gutai che si erano raggruppati attorno a Jiro Yoshihara volevano portare in una direzione nuova il lavoro fatto dai maestri calligrafi (in particolare da Nantenbo). Nei caratteri scritti da Nantenbo si trovavano “nijimi: sfumature/sbavature”, “kasure: sbiadimenti”, “tobichiri: schizzi/spruzzi” e “tare: gocciolature” ed altri effetti che non erano esprimibili con la pittura ad olio di quel tempo.
Kazuo Shiraga cominciò a disegnare con i piedi stando sospeso ad una corda fissata sul soffitto, Saburo Murakami aprì buchi saltando e squarciando in volo grandi fogli di carta precedentemente fissati su dei telai. Io, che ero fisicamente debole se confrontato con loro due, pensai di lanciare il colore in bottiglie o a farlo esplodere con un cannone.
E’ da tanto che produco opere mediante lancio di bottiglie. Lanciare con violenza, con dolcezza, impiegare una tela grande o piccola, sono tutte delle varianti. Cerco anche di soddisfare le eventuali richieste degli organizzatori o di adattare i contenuti della performance allo scenario. Penso che il lancio di bottiglie come metodo di pittura sia ancora adesso una forma di studio dell’ignoto. Trovo stimolante più di ogni altra cosa il fatto che si materializzi l’espressione di un quadro imprevedibile. Il significato più grande di questo fenomeno potrebbe proprio essere zen. Tuttavia, anche adesso sono in cammino e per questo non bisogna pensare che io abbia raggiunto l’illuminazione.

– Questo aspetto del suo lavoro ci porta a come lei intende il ruolo dell’artista.

S: Probabilmente io mi discosto parecchio dal concetto di artista che si ha in generale. Il fatto di voler vivere un’esperienza nata dal caso va ancora più avanti della semplice ricerca della libertà, è una realtà fissata nel mio cuore. Sono alla ricerca della verità.

– La tecnica, nella concezione sia occidentale che orientale dell’arte, ha sempre avuto un’importanza fondamentale: dopo le grandi rivoluzioni artistiche del Novecento, di cui Lei è uno dei protagonisti, cosa è la tecnica artistica oggi?

S: La tecnica è un elemento importantissimo nell’arte. Io però cerco un mondo che sia il più distante possibile dalla tecnica artistica tradizionalmente così considerata. Per questo, nel mondo dell’arte (in Giappone), nessuno mi ha dato rilevanza. Sono arrivato all’età di 80 anni e non c’è stato un solo museo in Giappone a farmi una mostra personale.

– Lei ama, ed ha amato molto, lavorare con gruppi di artisti. Che significato ha, per lei, la collaborazione creativa con gli altri?

S: Nel periodo del Gutai, quale primo discepolo di Jiro Yoshihara, avevo il ruolo di organizzatore ed elemento legante del gruppo. Per me però era sempre stato difficile prendere contatto con gli artisti stranieri.
Quando nel 1976 diventai direttore del gruppo Artist Union (AU), venni a sapere della mail art ed entrai in comunicazione con diverse migliaia di artisti di tutto il mondo. Questo sistema di comunicazione con tanti artisti che non conoscevo mi ha reso molto felice. Artist Union (AU) era un gruppo composto di artisti che avevano raggiunto una posizione di relativa importanza nel corso degli anni ’60. Accadde, però, che artisti che si erano laureati in università prestigiose e avevano imparato le tecniche fondamentali, tendevano ad allontanarsi dal gruppo, mentre ne diventavano membri gli artisti meno colti e quelli con handicap fisici o mentali. Questo tipo di artisti senz’altro esce dal quadro dell’arte normalmente conosciuta, ma è grazie a loro che nasce un’arte completamente nuova che supera il senso artistico comune.
Sono stato, poi, professore universitario per più di 40 anni, anche se non mi sono comportato come un normale professore. Al momento ho circa 200 allievi. Questi allievi, spesso, hanno molte imperfezioni se confrontati con l’immagine più comune di artista, ma sono proprio queste a generare nuovo vigore.

– Ricostruendo gli anni di Gutai Lei ha detto che ciò che vi spingeva era l’idea che l’arte dovesse essere totalmente libera. Che significato ha la parola libertà nel suo concetto di arte?

S: Durante la guerra per noi la libertà non esisteva. Nel dopoguerra ci fu resa la libertà e all’inizio fummo un po’ disorientati, ma capimmo poi più di ogni altra cosa la straordinarietà della libertà. La vita era piena di problemi, ma la libertà è la chiave della felicità. E’ stata una gioia infinita esprimere la libertà attraverso il mondo dell’arte.

– Una delle più importanti sue realizzazioni recenti è il monumento alla pace di Heiwa no Akashi a Shin Nishinomiya, l’arena di cemento che Lei rigenera con un lancio di bottiglie colorate ogni anno, a patto che il Giappone non sia entrato in guerra?

S: Il tutto cominciò nel 1986 quando Bern Porter venne a farmi visita. Bern Porter era un fisico nucleare che aveva partecipato al Progetto Manhattan durante la Seconda Guerra Mondiale, ma che rimase poi sconvolto dal fatto che una bomba fosse stata sganciata su Hiroshima nonostante l’imperatore si fosse già arreso. Bern Porter si pentì del suo contributo a quell’esperimento, divenne mail artist e cominciò a fare pellegrinaggi nel mondo per chiedere perdono.
Nel mio atelier piangeva dicendo che per espiare i suoi peccati non sarebbero bastate otto condanne a morte. In quel momento decisi di promuovere la pace nel mondo e dissi anche a lui le mie idee pacifiste. Dopo aver saputo delle mie attività, Bern Porter mi propose come candidato al Premio Nobel per la Pace, che però non presi.
Continuai comunque a promuovere la pace e nel 1999 diedi inizio al progetto Heiwa no Akashi.

– Come pensa che l’arte possa diventare uno strumento di pace?

S: Non voglio usare l’arte con leggerezza come strumento di pace perchè l’arte e la pace sono due cose molto diverse.
Quando feci visita a Bern Porter nel 1987, constatai come stesse conducendo una vita austera di espiazione e avesse rifiutato l’uso di ogni apparecchio di qualsiasi tipo. Anche se la sua casa sembrava di lusso, nella sua stanza non c’era niente. Il frigorifero non era nemmeno collegato alla corrente, e teneva in camera solo la mail art per la pace. Mangiava mezza cipolla ogni giorno e pregava per la pace dell’anima delle vittime. La sua era una vita davvero eroica.
Ci sono molte azioni che legano l’arte e la pace, però questo legame non deve essere affermato con leggerezza. E’ una cosa delicata e difficile e la strada non è ancora stata spianata. Per questo è un tema che vale la pena di affrontare ed è il tema della mia vita.

Lorenzo Mango-Andrea Mardegan