Arte d’Oriente – A Volo Radente – Achille Bonito Oliva

Se la scienza moderna ha esaltato il caso intelligente, la celebrazione dell’evento provocato dalla rottura della rigida catena causa-effetto, l’arte contemporanea, dal coup de dés di Mallarmé fino al cut-up di Brian Gysin messo in uso da W. Burroughs, celebra la possibilità del caso dolente della forma, ora confermato dal grande artista giapponese del gruppo Gutai Shimamoto, che dagli anni Cinquanta ha rinnovato il processo creativo. Ha introdotto una distanza e un intervallo tra il fare e il vedere.
Esistono due sequenze mitiche nella storia dell’arte contemporanea, scattate e riprese rispettivamente da un fotografo, Hans Namuth, e da un regista cinematografico. Riguardano Picasso all’opera filmato da Clouzot e Jackson Pollock fotografato durante la sua danza al dripping intorno alla tela in orizzontale sul pavimento. Il furor di Pollock non si accontenta del corpo a corpo verticale con la tela a muro o sul cavalletto, ma richiede l’assorbimento psicosensoriale dell’intero apparato somatico. L’artista circola, vacilla, e danza ebbro attorno alla tela.
Ma esistono tante foto anch’esse mitiche che documentano a futura memoria le opere pittoriche e performative di Shozo Shimamoto che utilizza la distanza per andare a bersaglio con la pittura, vero oggetto del suo processo creativo. Le sue sequenze creative sono segnate dalle tappe più importanti delle mostre del Gruppo Gutai, di cui è grande protagonista.
I gruppi Gutai e Mono-Ha rappresentano due tribù orientali, precisamente giapponesi, che tra la fine degli anni quaranta e l’inizio del decennio successivo hanno modificato con la loro strategia creativa la mentalità anche dell’emisfero occidentale.
Shiraga, Motonaga, Kanayama, Shimamoto e Tanaka sono gli artisti che hanno intrecciato gesto pittorico e azione estetica in un atteggiamento performativo in anticipo anche rispetto all’espressionismo astratto americano.
In evidenza:
– il fermento artistico tra la fine degli anni quaranta e l’inizio del decennio successivo della regione giapponese di Kansai (province di Osaka, Kyoto e Kobe), ambiente da cui proviene il Gruppo Zero (Zero-kai) di Shiraga, Murakami, Tanaka e Kanayama, che defluì nel 1955 nel già formato gruppo Gutai (Gutai Bijutsu Kyokai) di Jiro Yoshihara;
– lo sviluppo della ricerca performativa attraverso la successione delle mostre storiche e delle performance pubbliche organizzate dal gruppo:
1) “The Avant-Garde Exhibition by Young Artists” (“Mostra d’avanguardia dei giovani artisti”) del 1954;
2) “The Ashiya City Exhibition” (“Mostra della città di Ashiya”), sempre nel 1954;
3) la pubblicazione della rivista “Gutai”: quattordici numeri dal 1955 al 1965 (il secondo e il terzo numero furono ritrovati nello studio di Jackson Pollock dopo la sua morte);
4) la mostra nelle vetrine dell’Osaka Department Store nel 1954;
5) la “Experimental Outdoor Exibition of Moder Art” (“Mostra di arte moderna sperimentale all’aperto”) tenutasi sulle banchine del fiume Ashiya nel luglio 1955 e sponsorizzata dall’Associazione cittadina per l’arte, in cui Shiraga eseguì per la prima volta la sua azione con ascia e pali di legno dipinti di rosso, e Motonaga appese tra gli alberi strisce di plastica trasparente che trattenevano al loro interno dell’acqua colorata;
6) la “1st Gutai art Exibition” (“Prima mostra di arte Gutai”) tenutasi all’Ohara Kaikan di Tokyo nel 1955, occasione in cui per la prima volta Murakami eseguì la sua nota performance dell’attraversamento della carta e Shiraga eseguì Challenging Mud, due azioni che ebbero una straordinaria importanza per gli sviluppi successivi dello Happening, tanto che vennero inserite nel libro di Allan Kaprow Assemblages, Environments and Happenings (Harry N. Abrams, New York 1966);
7) la “One-Day Outdoor Exhibition” (“Mostra all’aperto per un solo giorno”) sul fiume Muko nell’aprile del 1956, in cui Shiraga ripropose una seconda versione della sua performance con ascia e pali di legno;
8) la seconda “Outdoor Gutai Art Exibition” (“Mostra Gutai all’aperto”) sulle banchine del fiume Ashiya nel luglio del 1956 con performance di Shimamoto e Murakami, Shiraga, Kanayama, e il prototipo del famoso Electric Dress di Atsuko Tanaka;
9) la “2nd Gutai Art Exibition” (“Seconda mostra di arte Gutai”) tenutasi sempre all’Ohara Kaikan Center di Tokyo nell’ottobre del 1956;
10) la “Gutai Art on the Stage” (“Arte Gutai sulla scena”) tenutasi a Osaka e Tokyo nel maggio del 1957, uno degli eventi più radicali del gruppo in cui Shiraga eseguì la performance Sambaso Ultra-Modern e Shimamoto la sua Distruzione di oggetti.
Nel 1956 nella “Mostra all’aperto di Arte Gutai” il dipinto realizzato col cannone di Shimamoto aveva una scala dimensionale cospicua, tale da esigere che l’opera fosse collocata all’aperto; in seguito questa tendenza portò l’artista a realizzare le sue opere col bottle crash.
La performance di Shimamoto non è dunque lo svelamento di un occhio classico e discreto, piuttosto il rituale visualizzato di un gesto esorcizzante la parzialità del reale che vuole risalire all’origine organica e dinamica della vita, a una sorta di totalità contratta nell’atto creativo. Il gesto, il lancio della pittura a distanza sulla tela diventa velocità, erotismo e desiderio di allargare il campo magnetico dell’opera attraverso l’introduzione del caso che porta nella direzione del riconoscimento di un evento totale, frutto anche del pensiero magico.
Il pensiero magico trattato nei libri di Carlos Castaneda distingue una doppia realizzazione dell’universo, una tonal, di pura registrazione della natura, una conferma statistica del visibile. Un’altra invece nagual, che procede dall’irruzione del caso, capace di aprire a nuove forme della realtà.
Shimamoto opera all’incrocio di una doppia tradizione. Una legata alle avanguardie storiche, nella figura strategica di Marcel Duchamp col suo ready-made, l’altra derivante dalla filosofia orientale e dalla linea esoterica di Castaneda che lo porta verso la valorizzazione del caso. Questo è sollecitato attraverso tecniche promananti dal quotidiano e dall’uso di utensili non appartenenti all’apparato tecnico-espressivo della storia dell’arte. Shimamoto adopera la precisione del cacciatore ed il dolore della preda.
Qui l’artista diventa il portatore di fucile, di una vista sintonizzata sulla distanza del vicino e del lontano, pronta all’inquadratura di un dettaglio esterno che diviene immediatamente bersaglio. L’artista orientale usa il cannone o il fucile come protesi per ridurre l’intervallo spaziale tra il proprio corpo e la realtà circostante. Utilizza superfici di ogni tipo su cui far esplodere bombolette di colore, colpi cromatici che trasfiggono la carne del supporto (tela, carta, legno) e la rompono secondo squarci imprevedibili e slabbrati, ferite senza possibilità di cicatrice.
Così queste superfici diventano spalla dolente, materia trafitta dai colpi dirompenti del cannone o del fucile che lacera crudelmente ogni levigatezza, scelta a caso ed a caso trasformato in altro da sé. Dolente diventa ogni materiale trafitto dall’attenzione dell’artista che colpisce, brucia, sgocciola e spruzza fuori dal proprio spazio corporale energia pulsionale. Essa ha bisogno di una sosta, di un bersaglio, formalmente definito, capace di trattenere a futura memoria l’impeto aggressivo di un bisogno espressivo, carico di erotismo e di impulsi di morte.
Perché l’arte è proprio questo: un corto circuito di eros e thanatos. Ogni fondazione di vita ha sempre bisogno di una preventiva distruzione, secondo il classico adagio nicciano. La distruzione serve a sgombrare il campo, a depurare la materia per poi poterla trattare senza scorie e pendenze.
Shimamoto ha cominciato col cut-up a sezionare, con la sadica ed amorosa cura del chirurgo, la carne indolenzita della pittura, mortificata dalla codificazione del senso, dalla conseguenzialità logico-discorsiva dell’immagine. Col taglio la pittura ha un soprassalto di dolore e di risveglio, perde l’ingessata protezione del significato e si apre a nuove possibilità. La possibilità nasce proprio dall’irruzione del caso che percorre la pianificata superficie del foglio scritto. Come un geometrico movimento tellurico, la forbice del pittore chirurgo rimette le parole nella condizione del frammento mutilato aperto a nuove intese. L’apparizione del significante comunica non un senso pacificato ma la bellezza misteriosa dell’imprevedibile e dell’indicibile. Il trasferimento dell’operazione all’arte figurativa, ha significato per Shimamoto il passaggio dall’identità di chirurgo a quella di cacciatore. La creazione resta sempre un bussare alla porta, un chiedere permesso di accesso al caso che fa irruzione in tal modo nell’universo delle forme.
Se il cut-up (il taglio della tela in più parti) permetteva di formalizzare l’indicibile, la tecnica dello «shotgun» fonda l’apparizione dell’invisibile, ciò che all’arte chiedeva Klee. Insomma Shimamoto applica da buon sciamano orientale anche la strategia apotropaica e magica di Castaneda alla porta di Duchamp. Bussa col fucile e la porta si spalanca verso la direzione di un significante che tiene aperti i battenti verso tutti i lati.
Ecco apparire sgocciolanti, bruciature, segnali antropomorfici, forme circolari, graffiti, squarci di varie profondità, buchi e crateri che ornano la superficie investita dai colpi di mano che l’artista produce.
L’arte diventa la spalla dolente della materia, la traccia di una dinamica tesa alla trasformazione del visibile, segnata in tal modo dal passaggio sensibile dell’uomo. L’universo di Shimamoto è piegato di incidenti formali: il lancio di una moneta, di un pennello, un colpo di fucile, la macchia di un colore, l’introduzione di sagome di cose, alberi e uomini, presenze di foglie, griglie, maschere, pezzi di vetro rotto, puzzle fotografici ed infine parole. Tutto diventa immagine. E questo è l’effetto di un’arte giocata sempre sulla trasformazione degli elementi. Una furia che comprende sempre un quoziente di caso intelligente accompagna l’evento creativo. Se il coup de dés di Mallarmé ha bisogno di una distanza minima, di uno spazio domestico tutto europeo, l’intervallo concettuale tra il foglio e la mano che lancia i dadi, la tecnica dell’artista agisce in uno spazio tutto orientale, un intervallo lungo che tiene conto della vastità spaziale che collega in ogni caso i deiversi continenti attraverso anchhe un sistema del’arte multiculturale.
Shimamoto educa in tal modo lo spettatore ad un’attività di precisione che pieghi la violenza ad altri scopi benefici e duraturi, come quello ulteriore di ammirare nuove forme di bellezza dettate dall’improvvisazione e dalla successiva contemplazione del risultato ottenuto.
Una coniugazione di due diverse antropologie, con l’approdo ad una nuova ed originale che contiene dentro di sé una sintesi capace di rappresentare un corto circuito tra il pensiero occidentale e quello orientale, tra figurazione e astrazione, narrazione e decorazione, racchiuse tutte in un’unica forma, quella dell’arte.

Achille Bonito Oliva